Come ogni estate, in Sardegna cerco di scovare i piatti del posto per raccontarveli, anche se non sono proprio adattissimi alla stagione. La prima volta in quest’isola magica fui molto stupita di apprendere dal papà dello zac che i Sardi non sono mai stati un popolo di mare, e quindi cultori del pesce, ma sono molto più ferrati sulla carne, tipo pecore e maiali (o cinghiali!).

pecora in cappotto

Venendo spesso invasi e dominati praticamente da chiunque, tipo fenici, cartaginesi, romani, e poi nel tempo pure genovesi e spagnoli, pare preferissero ritirarsi all’interno o sulle alture da dove potevano difendersi molto meglio, e controllare la situazione, un po’ come vi raccontai l’anno scorso qui. Vivevano quindi preferibilmente di pastorizia e allevamento, e i frutti di questa scelta sono molto gustosi, e spesso semplici, come la pecora in questione, un vero e proprio estratto di vita sarda.

Peccato, perché qui il mare è qualcosa di pazzesco. Oddio, il mare è sempre stupendo per me, però qui ha qualcosa di selvaggio che lo rende ancora più attraente, anche sulle spiagge più normali, di sabbia e basta, come quella di Costa Serena che vedete qui sotto, molto molto adatta a chi ha bimbi, per la presenza di alcune piscine naturali di acqua caldissima (nooo mica lo dico perché piacciono a me, no no no).

Adesso le cose sono diverse: i sardi amano il mare come tutti, anche se la cucina tradizionale è quella di terra, a base di maiali, pecore, e relativi prodotti come latte, formaggi e così via.

costa serena

Trattasi in questo caso, ad esempio, di un pezzo di cosciotto di pecora (ma si possono usare vari altri tagli), messo in pentola semplicemente con acqua, cipolle, patate e qualche rametto strappato qua e là dalla macchia mediterranea, che qui cresce potentemente ovunque.

La ricetta che ho trovato parlava di alloro e mirto e stop, io ho aggiunto salvia e un rametto di timo, ma ho visto che molti ci mettono carote, pomodori secchi e altro, anche a seconda del luogo della Sardegna e sua relativa tradizione culinaria.

pecora in cappotto

Alla fine della lunga cottura, la pecora, stremata ma con ancora tutto un suo carattere preciso, si mangia a pezzi, con una patata e una cipolla accanto. Io aggiungo olio, aceto e sale perché la bioterapia nutrizionale sostiene — secondo me con tutta la ragione del mondo — che la carne cotta così a lungo in acqua sarebbe un mattone senza l’aiuto di un apporto acido.

pasta di grani antichi floriddia

Anche le patate cotte nel brodo sono vietate dalla bioterapia, perché sono come spugne e assorbono tutto il grasso della carne, quindi per chi ha problemi di digestione non sono adatte. Voi fate quello che dico non fate quello che faccio, e se riuscite a trovare un pezzo di pecora felice questo piatto cucinatelo in inverno o comunque sotto i 20 gradi.

pasta con il brodo di pecora

Il brodo che rimane si ricicla con un po’ di pasta (dopo averlo lasciato riposare una notte in frigo e debitamente sgrassato), o in mille altri modi che esploreremo, tipo la zuppa cuata e altro. Ho approfittato biecamente di un pacco della pazzesca pasta di Sonia Floriddia, in forma di tagliatelle sottili sottili, che ci siamo fatti mandare qui sull’isola (lo so, siamo dei maniaci), e ho risolto una cena al volo una sera che faceva un bel frescolino (qui càpita, e quest’anno càpita spesso, brrrr).

pasta floriddia

Il pacco di pasta e farine (se no come lo facevo il pane qui, ehhh??!) è arrivato corredato da istruzioni, una spiga di grano antico e un regalino di Sonia sotto forma di libro di cucina tutto colorato.


Ingredienti:
un pezzo ingente di pecora felice e pascolante
qualche patata
qualche cipolla
un paio di rametti di mirto
qualche foglia di alloro fresco
qualche foglia di salvia fresca
qualche rametto di timo

La facilità fatta ricetta: prendete una pentola molto grande, metteteci dentro il pezzo di pecora (sciacquatelo un po’, prima), le cipolle sbucciate e tagliate a metà, le patate sbucciate, il mirto, l’alloro, la salvia e il rosmarino, aggiungete acqua abbondante a coprire il tutto, coprite con un coperchio, posizionate su fuoco decisamente basso e dimenticatevelo per tre o quattro ore.

L’operazione verrà molto meglio se avete la possibilità di cucinare all’aperto, perché sussiste la possibilità che si diffonda in ogni dove un odore (piacevolmente) pecoroso.

Quando la carne sarà molto tenera e cedevole, estraetela dal brodo, fatela a pezzi, conditela con olio, aceto, sale, pepe ed eventualmente le erbe che preferite, metteteci accanto le patate e le cipolle e servite con un po’ di pane (magari carasau!). Accoppiateci una bella insalata croccante e tanta frutta fresca a fine pasto (o prima del pasto).

Per quanto riguarda il brodo, attendete che si raffreddi, copritelo e mettete in frigo per una notte. Il giorno dopo sgrassatelo con una schiumarola; sarà molto facile, perché di solito si crea uno strato duro di un centimetro. Nel mio caso come vedete dalla foto sopra non c’era tanto grasso, comunque è facilissimo toglierlo da freddo, addirittura potreste passarlo in un colino e rimarrebbe tutto lì.

Se volete usarlo con la pasta vi basterà portarlo a ebollizione e cuocercela dentro; io le tagliatelle le rompo con la mano prima di metterle nel brodo; le istruzioni, se usate quelle Floriddia, le avete viste: mescolate la pasta solo dopo i primi tre o quattro minuti e poi assaggiate, tenendo conto che non avete a che fare con il solito concentrato di glutine ma con un grano normale che cede all’improvviso, quindi toglietelo dal fuoco quando è ancora ben al dente.

Torno alle occupazioni marine, ché oggi è bello, e prometto — croce sul cuore — che la prossima ricetta sarà vegana, anzi veganissima, e magari pure un dolcetto. Che dite?!