Sono da sempre una grande amante del cioccolato Domori e quando il mio percorso ha incontrato quello di izn, dando vita a questa rubrica, ho pensato che il suo cioccolato fosse adatto ai canoni del Pasto Nudo anche senza certificazioni. Bisognava però approfondire. Così mi sono messa in testa di realizzare questa intervista, e devo dire di essere davvero felice del risultato, sia in termini umani che di conoscenza del prodotto.
gianluca franzoni
Questa che vi propongo è la prima delle interviste che realizzerò per il pasto nudo; voglio farvi conoscere da vicino i produttori di cioccolato d’autore, che a tutt’oggi rimane comunque aromaticamente il migliore, in modo che possiate scegliere con consapevolezza.

Per chi non lo sapesse, Gianluca Franzoni è l’ideatore e il fondatore della Domori, una delle maison di cioccolato più prestigiose della penisola. La sua storia è un mix di visionarietà, intuizione, audacia e grande capacità di raggiungere gli obiettivi, ed è raccontata nel libro Alla ricerca del cacao perduto.
È la storia del recupero della varietà più pregiata di cacao, il Criollo, in una piantagione di proprietà della Domori, l’Hacienda San José; della creazione dell’azienda, che trasforma dalle fave al cioccolato solo cacao aromatico, dell’impostazione di un codice di degustazione del cioccolato, e di molte altre cose che passano anche per la sostenibilità e l’etica.
Si potrebbe pensare che il proprietario e fondatore di una ditta così affermata sul mercato, i cui prodotti sono tra i più premiati, se la tiri un po’. Gianluca Franzoni non è affatto così: ho contattato la Domori spiegando che volevo intervistarlo e dopo un paio di telefonate mi è stata data la sua mail senza problemi. Ho scritto a Gianluca chiedendogli se preferisse l’intervista via mail o per telefono, e mi ha risposto in tempi brevissimi, dandomi appuntamento telefonico. Ha poi sopportato senza segni di cedimento un’intervista di un’ora e venti, rispondendo con entusiasmo e senza filtro, da vero appassionato del proprio lavoro. Mi ha persino invitata molto gentilmente a partecipare a una degustazione che si teneva di lì a qualche giorno, e quindi ho potuto conoscerlo di persona. Anche quando (dopo un bel po’ di tempo) gli ho rimandato l’intervista trascritta, è stato celere, preciso e disponibile. So che tutto questo non riguarda il cioccolato in sé, ma secondo me ha molto a che vedere con la trasparenza e l’etica, e credo sia importante per capire di cosa stiamo parlando.
gianluca franzoni

Leggendo “Alla ricerca del cacao perduto” la cosa che mi ha colpito di più è la visione romantica e al limite dell’utopia che ti ha spinto fin dall’inizio a intraprendere questo viaggio. La definizione che dài di te stesso di “hidalgo del cioccolato nobile” ne è l’estrema sintesi. Mi piacerebbe parlare con te concretamente di ciò che succede nell’Hacienda San José. In che modo la Domori si batte per la conservazione dell’habitat naturale in cui le varietà pregiate di cacao si sviluppano?

Essendo un cultore del gusto e dell’eccellenza delle materie prime, quando ho conosciuto il cacao sul campo, in Venezuela, mi sono reso conto che esisteva un potenziale inespresso. Quindi mi sono focalizzato su una mia visione: il mio modo di intendere la vita è osservare lo status quo, seguendo poi però una strada personale, perché credo esista sempre una maniera diversa di fare le cose.
Quello del cacao per fortuna non è un mondo sviluppato, di filiera, come quello del vino, dell’olio d’oliva o di altre materie prime, quindi ho potuto approfondire liberamente e copiare quello che le aziende fanno in altri settori. La mia idea era recuperare ciò che già c’era di buono, e infatti ci siamo concentrati principalmente sull’eccellenza del cacao, il Criollo. Questo ha significato andare a cercare le piante giuste nelle zone più remote del Venezuela (nei giardini botanici, nei vivai e altrove), per poi riprodurle in estate nella nostra piantagione.
Il Criollo è eccellente a livello storico, genetico e botanico, ma anche soprattutto a livello sensoriale. Aromaticamente non è migliore della famiglia dei Trinitari o dello stesso Nacional, perché è più concentrato sulla frutta secca e sulla panna, ma non avendo antociani ha un’eleganza e una rotondità decisamente superiore a questi ultimi. Inoltre lavorando sulle piante di Criollo c’era la necessità di preservare la biodiversità. Così ho portato il Criollo in piantagione e da lì abbiamo fatto tutti gli innesti; poi l’abbiamo comunicato al mondo, facendo una grande opera di consapevolezza, perché fino agli anni ’90 nessuno lo conosceva.
A livello sensoriale il cacao deve avere degli aromi fini e non deve essere “amaro, acido e astringente”. Qui abbiamo svolto sicuramente un lavoro da pionieri, da medaglia, ma tanto faticoso, difficile anche per l’hidalgo perché ci è toccato predicare per dieci anni prima che il mercato fosse pronto. Stamattina ero a Parigi al salon du chocolat e non c’era cioccolatiere o pasticcere che non esponesse le foto delle fave di cacao: ecco, questo fino al 2000 era impensabile, nessun cioccolatiere sapeva come fosse un frutto del cacao. Adesso invece c’è una forte esigenza di conoscere *la materia*. Su questo penso di essere stato un po’ la farfalla che provoca un grande effetto, e ne sono molto felice.
Quello del cacao è un mercato distante come quelli del tè e del caffè, ma non ne condivide gli stessi vantaggi; questi ultimi sono prodotti che si possono processare sul luogo, il coltivatore riesce a lavorare sulla qualità perché può degustare, a differenza del cacao. E c’è anche il discorso della sostenibilità. Domori lavora su piante di qualità fine, coinvolgendo il coltivatore; la prima opera che facciamo nei paesi con cui collaboro, purtroppo non in tutti per mancanza di tempo, ma sicuramente in Ecuador, Colombia e Venezuela – è organizzare dei corsi per i coltivatori, insegnando loro cos’è la qualità organolettica del cibo; non lo facciamo solo sul cacao, ma su tutto quello che loro coltivano. Questa è una cosa molto bella a cui loro non sono abituati; spesso sono persone povere che hanno solo un ettaro di terra e guadagnano poco, e la qualità del cibo non è sicuramente una loro priorità, oltretutto in questo modo possiamo migliorare la filiera.
A parte questo devo dire che non uso marchi di garanzia quali fair trade e biologico, perché il mio approccio alla qualità è più olistico e riguarda la sostenibilità della filiera e la crescita dell’individuo sia esso il consumatore, il coltivatore o il cioccolatiere. Poiché nella vita sono un umanista che crede più alle persone singole che alle organizzazioni compro i prodotti che amo perché ho imparato a conoscere coloro che li producono, spesso apprendo una lezione da essi e finisco per fidarmi di tali marchi.
gianluca franzoni

Mi hai parlato di innesti. Le varietà di Criollo sono solo innestate o ci sono anche delle piante seminate direttamente?

Dato che molte piante di cacao sono autoincompatibili, ovvero hanno bisogno di un altro tipo di pianta di cacao per essere impollinate, è difficile mantenere una varietà in purezza. dal momento che invece il Criollo è autofertile (=pianta che compie l’autoimpollinazione) possiamo coltivarlo isolatamente, per essere certi che non si mescoli con altre varietà. Se prendessimo un frutto di Criollo cresciuto insieme a piante, per esempio, di Trinitario, potrebbe essere stato impollinato da quest’ultimo, e ci sarebbe una possibilità del 50% che i semi all’interno fossero Trinitario, e non Criollo. Anche se il rametto porta gemme fosse un Criollo, ci sarebbe il 50% di possibilità che il seme non lo sia. Ecco perché il metodo più sicuro per garantire che sto coltivando la pianta giusta non è il seme ma l’innesto.

A proposito di impollinazione – visto che ne stiamo parlando – da quello che so, è molto difficile avere un habitat in cui gli insetti che naturalmente impollinano il cacao si sviluppano in numero sufficiente, per cui spesso si ricorre all’impollinazione a mano. Nelle vostre piantagioni succede lo stesso?

L’impollinazione manuale si fa solo per scopi di ricerca. Se voglio creare un ibrido posso impollinare manualmente con una fialetta, ma questo non è possibile per coltivare grandi volumi; si può fare in casi come quello della vaniglia, che ha pochi fiori. Per le piante di cacao bisogna creare l’habitat, vale a dire umidità, terreno giusto, foglie e altre cose indispensabili, come ad esempio gli scarti delle banane che vengono messi sotto le piante.

Ho letto sul tuo libro che le piante di cacao fine sono particolarmente sensibili e vengono spesso attaccate da alcune malattie, la malattia degli scopazzi e la monilia fitoftora. In che modo i vostri coltivatori intervengono per difendere le piante da malattie, funghi, insetti e parassiti, insomma da quello che può colpirle negativamente?

Molte grandi aziende hanno cercato di trovare una pianta campione che potesse eliminare questo problema, ma come in quasi tutti i mondi agronomici questa non esiste e nel cacao non è mai esistita. I metodi migliori sono sempre la buone pratiche di campo: controllare le piante, non dare troppa ombra, fare attenzione a non creare un habitat nel quale si sviluppino facilmente virus e muffe, e, laddove si inneschi un meccanismo di malattie, intervenire sùbito coprendo le piante o i frutti. Questo è sempre stato il modo migliore per procedere. Poi è vero che ci sono zone più vocate a queste malattie, come il Brasile, il Costa Rica e certe zone del Messico. Da noi non c’è problema di nessuna malattia, non perché il Criollo sia più resistente (anzi di solito lo è di meno), ma proprio per una questione naturale. Oltretutto se il contadino riuscisse ad operare sul campo il problema si potrebbe limitare molto; spesso purtroppo non riesce a farlo per tante ragioni, sia economiche sia geografiche; nei paesi tropicali di solito non si lavora otto ore in campo, non lo dico per far polemica, si tratta solo di un diverso stile di vita. Questo però a volte porta ad esempio a non riuscire a potare tutto nel momento giusto, o a dare i nutrienti giusti nei giusti tempi.

Ecco, a proposito di nutrienti, vengono utilizzati dei concimi, e se sì quali? O l’habitat è tale per cui non c’è bisogno di intervenire sul terreno?

Normalmente sia nella nostra Hacienda San José che nelle piantagioni con cui collaboriamo, il terreno va sempre alimentato, perché il contenuto di fosforo, potassio e azoto e anche del calcio e di altri oligoelementi va ben dosato, quindi la fertilizzazione è molto importante. Poi dipende dai paesi; di solito dove ci sono produzioni massicce si usano fertilizzanti di sintesi, altrove si usa materia organica.

Quali sono i Paesi in cui in genere si usano i fertilizzanti di sintesi?

Di solito sono quelli con produzioni estese, soprattutto le isole dell’Asia, tipo Malaysia e Indonesia. In Africa e in Asia le piantagioni sono povere e c’è un frazionamento minore rispetto a quello del Sud America; il contadino che coltiva il cacao possiede spesso un ettaro di terra al massimo, e anche se non è certificato non ha proprio le risorse per pagarsi dei fertilizzanti di sintesi, e la coltivazione è giocoforza naturale.

Il cacao necessita di un determinato quantitativo di acqua, distribuito in un certo modo; non deve averne meno di un certo quantitativo per mese, eccetera. Questo fabbisogno in genere è garantito dalle condizioni climatiche oppure bisogna intervenire con delle irrigazioni?

Anche ai tropici ci sono zone secche, per cui bisogna intervenire con vari sistemi: l’irrigazione a goccia, i sistemi per gravità (con tank e tubazioni); in molti paesi i campi vengono allagati finché l’acqua viene assorbita. Dipende molto dalla zona.

Nell’Hacienda San José come fate?

Usiamo i tank, quindi gravità e goccia, e a volte anche passaggio a pompa; in alcune zone dell’interno facciamo arrivare i tank con camion o trattori.

Leggendo il libro mi è sembrato di capire che in qualche modo hai dimostrato che la resa delle piante di cacao fine non è poi così bassa come si pensava che fosse, è corretto?

Come dicevo poc’anzi il problema delle rese di cacao è che solitamente i coltivatori non adottano delle buone pratiche di campo. lavorano poche ore al giorno, non potano, non hanno acqua, le piante sono vecchie e non vengono rinnovate. Questo fa sì che le rese attuali mondiali siano bassissime: attorno ai 300 kg per ettaro. Con una buona pratica agronomica noi, soprattutto per Ocumare e Chuao, ma anche per gli altri Criollo, riusciamo ad avere rese addirittura di una tonnellata. Con alcune varietà (non ce ne sono tante, ma ci sono) si possono tranquillamente raggiungere anche due tonnellate di resa. È solo questione di sapere ciò che si fa e di offrire alle piante le risorse di cui necessitano.
gianluca franzoni

In generale le coltivazioni non forzate chimicamente risentono sempre dell’annata, ci sono annate migliori e peggiori nel vino come in tutte le altre cose. È così anche per il cacao?

A questa domanda rispondo sempre che si tratta di una credenza, anche dei grandi cosidetti esperti, cioccolatieri, tecnici o docenti che siano. Il cacao non è come l’uva, come il caffè, il tè, il pomodoro, dove il terroir è importante. Il terroir inteso come condizioni climatiche, suolo, micronutrienti, esposizione ai venti, ore di sole, esperienza del coltivatore, non influenza il cacao. Quando ho iniziato avevo anch’io questa idea romantica, poi mi sono reso conto che il cacao non varia a seconda dell’annata, se varia c’è stato sicuramente un errore umano nella filiera.
Mi spiego. Innanzi tutto il cacao non giunge direttamente agli agenti di cioccolato, ma arriva tramite intermediari che spostano il cacao, quindi l’agente di cioccolato non ha fatto un lavoro di filiera. Questo lavoro non viene fatto neanche dagli intermediari, che si limitano a raccogliere da molti coltivatori e via.
Poi c’è il problema del coltivatore. Il cacao maturo non cade a terra; la maturazione si capisce dalla variazione del colore, ma non si tratta di un metodo perfetto. Idealmente bisognerebbe verificare il contenuto zuccherino della polpa, ma per farlo andrebbe bucato il frutto, e non si può fare senza danneggiarlo. Dunque il coltivatore si basa sulla sua esperienza, su quel senso del terroir che dovrebbe avere; dovrebbe osservare la forma, il colore, conoscere tutte le piante perfettamente e sapere che più o meno in sei mesi maturano e possono essere raccolte. Molte volte però il coltivatore non è così preciso ed esperto e magari ha anche bisogno di soldi, così lo raccoglie non completamente maturo, o a volte sovramaturo. Questo parametro cambia sicuramente il cacao.
Un’altra variabile: il cacao viene lasciato a terra per terminare il raccolto; se passa troppo tempo oppure poco tempo, o comunque un tempo diverso rispetto all’anno precedente, la prefermentazione che avviene nel frutto, avviene diversamente, e anche questo ha una rilevanza. Le casse di cacao sono di dimensioni diverse (a seconda delle dimensioni della cassa si sviluppa una temperatura diversa) da cooperativa a cooperativa. Quando la fermentazione non viene guidata (nel cacao come in altri settori) è chiaro che ci sono delle variazioni. Questi sono errori umani non dovuti alla qualità del cacao.
Il cacao è stato verificato dai maggiori genetisti al mondo (che sono 2 o 3); la genetica per questa pianta è molto importante. Sono state fatte prove su un Trinitario, un Forastero e anche sul Nacional dell’Ecuador, portandoli in diversi paesi e terroir, e il risultato organolettico è risultato simile. Poi quando si parla con molti tecnici, professori, cioccolatieri, tutti pensano che il cacao dìa risultati diversi a seconda della zona. Anch’io ho provato con tutti i Criollo, provenienti da zone diverse, e con il Nacional dell’Ecuador, e ho verificato che su due territori diversi il risultato è lo stesso.

Quindi il concetto di cru nel cioccolato non ha senso, praticamente.

Assolutamente no. Io tra l’altro sono un fanatico di vini francesi di terroir, come Borgogna, Champagne e Alsazia, che sono l’esaltazione massima, anche paradossale quasi, del concetto di cru. Spostandosi di dieci metri si ha un vino che invece di costare 20 euro ne costa 200. Nei cacao non esiste questo concetto: il frutto è all’interno di una scorza dura e i vènti e il sole non gli arrivano. La temperatura è costante, può cambiare di 5 o 6 gradi ma non c’è una vera escursione termica, se non in zone di altura. Comunque anche l’altura non ha influenza sul cacao, non è come il tè e il caffè, non esiste un cacao di altura. La verità è che il cacao è lo stesso, a 0 e a 1000 metri di altitudine. Tra l’altro questo è anche un autogol per me, perché io, avendo una piantagione in Venezuela, dovrei sostenere che è un luogo fantastico e unico… ma per amore della verità questo è quello che ho verificato.

Ho sentito dire che i prodotti che intraprendono dei viaggi transoceanici, devono essere sottoposti a trattamenti chimici che li preservino da attacchi di animali, agenti patogeni, e altro. È vera questa cosa, e succede anche per il cacao?

È vero, ed è vero anche per il cacao. Ora non ricordo le varie sostanze, comunque ci sono dei processi di fumigazione obbligatori alla partenza; ci sono anche fumigazioni certificate per il biologico. Il cacao normalmente porta con sé la larva di un lepidottero, la tignola del cacao, e quindi per evitare il proliferare ciclico di questa farfalla, si fa questo processo di fumigazione, che noi facciamo anche a cicli nei magazzini, non direttamente sulle fave ma esternamente, sui sacchi.

Sul sito della Domori c’è scritto che voi avete un processo a “basso impatto” sul cacao grazie alle basse temperature e alla snellezza del processo che prevede meno macchinari e meno cicli. Cosa si intende per basse temperature, quanto sono differenti rispetto a quelle che vengono utilizzate normalmente?

Questi accorgimenti li faccio dal ’94, e ormai parlare di basse temperature può sembrare fuori luogo, anche perché adesso c’è questa moda del cacao crudo. Nel cacao, come in tutte le cose, esiste la maniera giusta per farlo, cioè fare per esaltare. La mandorla va mangiata cruda perché non c’è evoluzione aromatica sulla mandorla tostata, mentre le nocciole, come il cacao, vanno tostate per esaltare gli aromi volatili. Le mie temperature di tostatura sono intorno ai 120°C, più basse di 30°C rispetto ai 150°C che vengono utilizzati da sempre nella storia e nella tecnologia del cioccolato. Il cacao crudo viene lavorato a temperature inferiori ai 70°C; poi ognuno dice la propria, ma per me se non si producono gli aromi volatili non si può parlare di cioccolato.

E invece in che modo hai snellito il processo, cioè quali macchinari o cicli sono stati eliminati o cambiati?

Secondo il metodo tradizionale, che va bene per gli impianti di coperture, il cacao viene tostato, privato della buccia, poi c’è il passaggio a pasta che avviene con metodi diversi, e poi una fase successiva di preraffinazione per ridurre la granulometria. Dopo si miscelano gli ingredienti (quindi la pasta, un po’ di zucchero e un po’ di burro di cacao per poter avere il giusto quantitativo di grassi per poter lavorare con i cilindri) e poi avviene la raffinazione. Dopo la raffinazione nei cilindri si fa il concaggio, che tradizionalmente si fa in due fasi, una secca, in cui non si mette tutto il burro di cacao che è necessario per la copertura (e quindi si stressa di più la materia), e poi quella liquida, dopo qualche ora, nella quale si aggiunge il burro di cacao rimanente e quindi il prodotto diventa più fluido.
Noi per le coperture abbiamo mantenuto i cilindri (anche se c’è un po’ di contaminazione che non mi piace molto). Facciamo una preraffinazione, una miscelazione, e una raffinazione. Invece il concaggio non lo facciamo secondo il metodo tradizionale ma abbiamo una sola fase, liquida, in modo che il prodotto si stressi di meno, e aggiungiamo tutto il burro di cacao già in miscelazione. È un metodo recente perché facciamo coperture da solo quattro anni e con un impianto messo a punto, molto innovativo.
Il metodo che ho totalmente rinnovato, di cui si parla sul sito, è invece quello delle tavolette e cioè del cioccolato da degustazione. Ho pensato che non si può valorizzare e valutare una pianta di cacao con la formula moderna “pasta più zucchero più burro più lecitina più vaniglia”, ma più puramente: “pasta più zucchero”. Solo così si può capire la pianta e notare eventuali difetti. Per fare questo non volevo però usare temperature alte (a parte la tostatura), quindi qui da noi si raffìna a 50°C e non c’è un concaggio vero. La mia idea era usare le macchine a biglie che nascono non per il cioccolato, ma per la preraffinazione del cacao.
Questo perché ho un prodotto di partenza che come dicevo prima lavoro bene sul campo, e non ho quindi aromi volatili negativi o sostanze che devo eliminare con il concaggio. Devo piuttosto tenere il più possibile tutto il potenziale dentro. Il mio concaggio consiste quindi in un’emulsione: la macchina a biglie fa in due fasi la raffinazione vera e propria, che riduce molto i micron, e disperde le parti secche, cacao e zucchero, nella parte grassa. In questo modo dato che la macchina a biglie non ha parti molto aperte e non usiamo estrattori di aria gli aromi volatili vengono mantenuti. Di fatto quello che ho inventato per le tavolette è un concaggio parziale: temperature basse a 50°C e processo che dura 8 ore fra massa e cioccolato, quindi molto breve. In questo modo si inquinano anche meno le tuberie, che sono solo quelle che escono dalla macchina a biglie e che vanno nel tank che mantiene a 40°C il cioccolato, e quindi possiamo pulire il minimo possibile perché non rimane materiale nel ciclo.

Adesso una domanda di spirito romantico all’hidalgo del cacao. Ti chiedo di accompagnarci idealmente in una passeggiata in piantagione. Mi piacerebbe che ci descrivessi le piante che vi crescono oltre il cacao, se ci sono fiori, qual è la sensazione generale che si prova – per esempio il caldo, l’umidità, gli odori, i suoni, quali animali si possono osservare, insomma informazioni di tipo sensoriale, non scientifiche né tecniche, per far sognare un po’ le persone di stare lì.

La passeggiata varierebbe molto da regione a regione; ci sono zone collinari, più belle di altre, ma comunque girare sui campi è sempre bello. In genere il cacao vive all’ombra di altre piante, soprattutto leguminose, o alberi maestosi come il mogano, spesso ci sono anche agrumi, a seconda dei paesi, e poi la yucca e la manioca che rilasciano nel terreno sostanze nutrienti, soprattutto azotate. Una delle prime volte che andai in Venezuela entrai in una grande piantagione immersa nei campi di mais, un’altra coltivazione che va di pari passo col cacao. A volte intorno al cacao ci sono proprio macchie coltivate a mais, che è uno degli alimenti fondamentali di quelle zone, e che venivano coltivati nella milpa (l’orto dei Maya) assieme al fagiolo, alla zucca e appunto al cacao, sacri alle divinità dei Maya.
Fiori non ce ne sono tanti, a parte le eliconie; il cacao non profuma, e in genere non ci sono grandi profumi. Ci sono molti suoni, forti, ritmici, dalle cicale ai pappagalli (che sono un po’ funesti per il cacao, perché danneggiano i frutti succhiando la polpa, come gli scoiattoli). È difficile vedere felini, più che altro si vedono scorrazzare animali domestici, come i maiali, allevati dai coltivatori per il proprio consumo. Il fascino però è grande, perché i fiori e i frutti crescono nello stesso momento sui tronchi più grossi, e sono un vero spettacolo.
È affascinante e straordinario che un frutto che non ha alcun profumo abbia una struttura e un aroma unico quando diventa cioccolato. Le temperature sono variabili, chiaramente fa caldo, normalmente siamo sopra i 25°C, a volte ci sono zone umide e dunque si suda, a volte ci sono insetti, che possono essere più o meno fastidiosi a seconda delle zone.

Visto che è così affascinante, vi è mai venuto in mente di organizzare delle visite all’Hacienda San José, o le organizzate già?

Le organizziamo con i nostri clienti, non i negozi, ma i pasticceri e i cioccolatieri. Per i consumatori no. È capitato che i consumatori abbiano chiamato noi o l’Hacienda San José e siano andati sul posto, che è sicuramente accessibile, ma non abbiamo mai organizzato un tour per loro. L’abbiamo fatto solo a giugno per una ventina di persone della Compagnia del Cioccolato, ma se lo sono organizzato da soli, noi abbiamo fornito un po’ di logistica.

Sul tuo libro, che risale al 2011, dici che presso l’Hacienda San José c’erano 140 ettari coltivati a cacao, per un totale di circa 150.000 mila piante, ma che solo 50 ettari erano arrivati a maturazione. Adesso qual è la situazione della piantagione: avete raggiunto il massimo della produzione o siete ancora in espansione?

La piantagione è tutta innestata ormai, ma circa il 5% lo perdi sempre e quindi devi provvedere a qualche pianta più debole. Diciamo che il 90% circa è innestato, ma non ce n’è ancora nessuna in piena produzione, vale a dire al settimo anno. Al quarto-quinto anno abbiamo circa 60-70 ettari, poi il resto stanno arrivando, quindi siamo ancora in espansione. La piantagione dà attualmente intorno a 35 tonnellate, e dovrebbe arrivare a circa 110 tonnellate. Dovremmo arrivare almeno a 800 chili di media per ettaro.

Dal momento che la maggior parte del lavoro di coltivazione e di raccolta è manuale, quante persone trovano lavoro in una piantagione così grande?

Normalmente abbiamo 45 persone fisse, poi qualche volta in stagione può esserci un aiuto. Una persona può stare dietro a circa 3 ettari.

La società mista che ha i diritti di coltivazione dell’Hacienda San José quali politiche applica per la tutela dei lavoratori?

I coltivatori hanno l’assistenza sanitaria, sono dotati di tutte le comodità – spogliatoio, sala mensa – gli orari di lavoro vengono rispettati, logicamente i bambini non lavorano nella coltivazione e ci sono dei gruppi che vengono organizzati con i tecnici così che i coltivatori siano resi consapevoli del valore che ha il Criollo; è una realtà molto organizzata, perché ci lavoriamo da tanti anni.

L’Hacienda San José non è l’unica che fornisce cacao a Domori. Oltre al Criollo, quali varietà acquistate attualmente e da quali paesi, e le piantagioni e i coltivatori sono sempre gli stessi?

In Ecuador lavoriamo con più cooperative in più zone; le cooperative possono essere di dimensioni variabili e possono non essere esclusive per cui magari facciamo il lavoro sul protocollo di una piantagione però poi la cooperativa è libera di vendere anche ad altri, perché normalmente il prodotto è in eccesso. Le cooperative raggruppano magari 1000 soci e hanno, non so, 2000 ettari, è chiaro quindi che noi non compriamo tutto. Su queste cooperative il lavoro che facciamo è lo stesso cioè sulla qualità, sulla consapevolezza e sulla verifica di tutte le condizioni necessarie per poter garantire una sostenibilità. Questo soprattutto in Ecuador, in Colombia e in Perù. In Perù abbiamo anche dei referenti locali, per cui lavoro con delle persone diventate ormai amiche, che fanno un lavoro di ispezione continuo, perché spesso in alcuni paesi è stato introdotto del materiale molto produttivo, ma di scarsa qualità e c’è sempre il rischio che venga miscelato; soprattutto in Ecuador e Perù, dove bisogna conoscere bene il territorio, perché dal paese esce spesso roba di non grande qualità.

Quindi voi a questi coltivatori imponete delle metodologie di coltivazione che sono quelle vostre standard, da quello che mi è parso di capire.

Sì, sì. Che poi sono cose molto semplici.

E anche rispetto al trattamento dei lavoratori avete il potere di intervenire?

No, questo no. Possiamo dare dei consigli, ma si tratta sempre di organismi abbastanza complessi, pur nella loro semplicità, perché sono magari i singoli soci che conferiscono alla cooperativa, con le loro problematiche a livello comunale o sociale, per cui a meno di non aver fatto opere in loco non si può agire tanto a livello socio-politico. Chiaramente non compriamo da zone problematiche, ma devo dire che in Sud America siamo in piena tutela, non è una zona in cui ci potrebbero essere dei problemi. Se ci sono dei bambini sul campo, cosa che spesso accade, sono come quelli che potrebbero esser qui da noi nei frutteti, magari al pomeriggio qualche ora, ma non è che non vanno a scuola o vengono sfruttati, sono i figli che aiutano i genitori. Esiste un coinvolgimento dei bambini nel lavoro della famiglia, in modo molto simile a quello che avviene in Europa.

Parliamo degli altri ingredienti che compongono una tavoletta. Tu usi zucchero di canna per i tuoi cioccolati, che è una scelta già piuttosto particolare, per l’epoca in cui l’hai fatta. Si tratta di zucchero grezzo o integrale?

Si tratta di zucchero di canna raffinato. Purtroppo il Mascobado non si può usare perché è umido e perché cambia proprio il sapore. Ho provato con il Demerara che comunque è un raffinato a cui viene poi successivamente aggiunta la melassa, ma sono tornato allo zucchero chiaro, quindi comunque a un raffinato, per avere la neutralità. Ho scelto di mantenere la canna da zucchero perché vive col cacao, quindi aveva più senso.

E i produttori di zucchero li selezioni anche in base alle politiche di salvaguardia ambientale e di trattamento dei lavoratori?

No, questo no. Abbiamo diversi fornitori, alle volte lavoriamo con delle cooperative che sono all’avanguardia su questo in Paraguay e in Brasile, però normalmente abbiamo degli intermediari, non è zucchero che arriva direttamente.

E il latte in polvere che viene aggiunto per il cioccolato bianco e per quello al latte, che peraltro sono una parte minore della vostra produzione?

Sono latti normalmente di provenienza Austriaca o Francese; a volte sono anche certificati biologici, ma su questo non abbiamo un protocollo. C’è tra i nostri fornitori un’azienda certificata, ma non andiamo a verificare le certificazioni che hanno queste aziende.

Molte aziende che producono cioccolato e che trasformano direttamente le fave di cacao, hanno un fabbisogno di burro di cacao maggiore rispetto a quello che riescono a produrre per cui se lo procurano esternamente. Anche per Domori è così?

Sì, o meglio, per fare il cioccolato nella forma tradizionale, che sia da consumo o da copertura, devi aggiungere burro di cacao. Normalmente le aziende che partono dalle fave di cacao e arrivano alla pasta – ma non tutte lo fanno, molte comprano dei semilavorati – non estraggono burro di cacao, perché per farlo occorrono dei macchinari che per essere economici in termini di investimento dovrebbero poter processare almeno 10.000 tonnellate di fave. Quindi il 99% delle aziende che fa cioccolato il burro lo compra. Quella dell’estrazione è un’industria molto concentrata, quindi chi vuole comprare il burro normalmente va alla ICAM oppure va nelle classiche aziende internazionali che garantiscono una certa qualità. Noi utilizziamo tutte le fave per fare la pasta di cacao, quindi il burro lo compriamo sul mercato internazionale da un’azienda olandese che ci garantisce la qualità che vogliamo noi.

Quindi anche il burro di cacao della vostra linea professionale non viene prodotto direttamente dalle vostre fave.

No, perché le fave le utilizziamo solo per arrivare al cioccolato. Prendiamo ad esempio una copertura di Sur del Lago: siccome il burro di cacao è neutro non ha senso usare le stesse fave per l’estrazione del burro, ecco. A livello filologico può aver senso, ma a livello organolettico non ne ha. Il burro di cacao si valuta per il punto di fusione, cioè se un burro è più duro o è più morbido, quella è la cosa importante nel burro, ed è una caratteristica chimico-fisica.

Una domanda, da estimatrice. Oltre al gusto e agli aromi dei suoi cacao, quello che io adoro nei prodotti Domori è il modo con cui si sciolgono sul palato, che è diversissimo da quello di qualsiasi altro cioccolato di qualsiasi altra azienda, anche aziende molto importanti e blasonate, e che a mio modestissimo parere è un vostro segno distintivo. Non è solo una questione di cacao aromatico, ma anche una percezione tattile che emerge nella degustazione. Qual è il segreto di questa cosa, se me lo puoi dire?

Questa è una domanda che mi ha fatto tre mesi fa Alain Ducasse. il fatto che il prodotto è cremoso e rotondo è la nostra firma sul cioccolato. Non è che ci sia un segreto, è che riguardo alle fave io penso di sapere quando una roba è cattiva o non è cattiva, molti invece non ne hanno idea. È strano dire questo perché magari nel mondo dei vini c’è un grande talento, mentre nel mondo del cioccolato onestamente sul potenziale delle fave ancora scarseggia la conoscenza del valore che deve avere a livello organolettico, per cui molti non riescono a capire che un prodotto astringente non va processato.
Io non processo fave che hanno un’astringenza che so di non poter poi cambiare. Il segreto insomma è avere buone fave, esaltarle in fermentazione, tostarle a basse temperature, e seguitare poi a mantenere la qualità durante tutto il processo. Significa anche dire le cose come stanno; dal momento che purtroppo non tutto può essere garantito in filiera, se mi arriva un lotto che magari viene da una zona distante e il coltivatore è in una cooperativa, e sento che non va, lo dico. Se ad esempio ha un alto livello di astringenza, non è che mi invento che è il suolo o la stagione, no, non va bene. Ecco questa penso che sia la coerenza, e questa cosa poi la si ritrova in bocca.

Facendo una ricerca in rete è possibile leggere articoli risalenti al 2002 che parlano del cioccolato biologico Domori Chacao; sono presenti anche immagini delle tavolette Crystal e Absolut che in etichetta riportano la dicitura “da agricoltura biologica”. Mi sono chiesta come mai questa cosa non esista più e anche come mai non prendiate nessun tipo di certificazione rispetto alla tutela dei vostri lavoratori. In parte mi hai risposto prima, ma mi farebbe piacere avere una risposta più completa.

Quelle tavolette nascevano da un’idea, ma come sempre le idee che si hanno nel percorso della propria vita, si devono evolvere. L’idea era di prendere una nicchia, che all’epoca era nascente, e per questo avevamo creato una società che faceva cioccolato biologico e si chiamava Chacao, per entrare nel mondo del naturale. Questa iniziativa non ha avuto successo per tante ragioni. Non era il nostro lavoro, noi dovevamo focalizzarci su Domori, il senso era quello, l’altra era più una scelta commerciale. A livello invece di piante, attualmente come ho detto prima parlando di sostenibilità e di tutela, molte varietà sono certificate perché noi compriamo in Ecuador, in Perù, in Madagascar e anche in Tanzania e i cacao sono biologici e anche solidali. Forse quello che faremo sarà un codice interno etico che si potrà leggere, nel quale spiegheremo quello che facciamo e come, ma alla certificazione vera e propria non siamo interessati, anche se avendo già lavorato con una certificazione potremmo rifarla.

Nel libro citi un progetto inserito nell’ambito del programma UNODC delle Nazioni Unite, quello in Colombia insieme alla comunità di San Patrignano (individuare in Colombia le zone adatte alla coltivazione del cacao per poi formare dei coltivatori e cercare di fargli convertire le piantagioni di coca in piantagioni di cacao). Volevo sapere a che punto è, perché quando l’ho letto mi è piaciuto moltissimo e volevo capire se è andato avanti.

Il progetto è andato avanti a livello di UNODC e Domori, non di San Patrignano. Lavoriamo con l’UNODC e l’Ente colombiano per lo sviluppo che si chiama Prosperidad Social su diversi territori con programmi a breve/medio termine, perché, come spesso succede con UNODC, si tratta di programmi di uno o due anni, poi si devono rinnovare. Noi ne abbiamo fatti diversi e ne stiamo facendo un altro adesso.
I programmi consistono in un lavoro di valutazione delle piante e del potenziale che c’è sul territorio, per poi stabilire un disciplinare di fermentazione e dare dei consigli di coltivazione, anche se quello non è il lavoro primario, perché comunque tecnici buoni ci sono dappertutto. Bisogna dare alcune direzioni che migliorano la qualità e poi comprare il prodotto. Quindi noi lavoriamo attualmente con tre cooperative in Colombia, che hanno tre prodotti diversi, che rientrano nei programmi del governo e di UNODC.

Ok, grazie mille allora, mi ha fatto davvero tanto tanto piacere.

Assolutamente, anche a me.