Ieri mattina facevo un volo radente su facebook (dopo lo sguardo veloce ai quotidiani on line) e mi sono imbattuta in un articolo molto avvincente, linkato da Elizabeth Minchilli, una splendida donna che ho conosciuto qualche mese fa, titolare di un blog molto interessante, che dovreste proprio visitare se avete un momento.

Il post, datato 12 ottobre 2011, si trova su un interessantissimo blog del New York Times, Green, ed è titolato “Deep Thinking About the Future of Food”.
Invece di linkarvelo come al solito ho pensato di tradurvelo, in modo che anche chi non conosce l’inglese o non lo conosce abbastanza per aver voglia di concentrarsi a leggere in un’altra lingua, abbia la possibilità di usufruirne, perché vale veramente la pena di dargli uno sguardo. Sono tutte cose che in realtà sappiamo già, ma personalmente vedere che anche il resto del mondo se ne sta accorgendo e sta tentando di muoversi di conseguenza mi consola un pochino.
Cercate di non fare caso alla qualità della traduzione, sono solo una povera mamma-blogger indifesa; anzi, a proposito di traduzioni se qualcuno volesse immolarsi alla causa e tradurre in inglese il pasto nudo noi siamo qui eh. Voglio dire, non si sa mai magari c’è qualche madrelingua inglese autolesionista che circola tra queste pagine, può essere, no? :-)


Una profonda riflessione sul futuro del cibo
di Justin Gillis
Tentare di attingere al meglio del pensiero circa il futuro dell’agricoltura mondiale, come ho provato a fare nel mio lavoro di reporter, può essere un’esperienza frustrante. Molti gruppi e molte persone brillanti si accostano al problema, ma pochi lo fanno in modo olistico.
Gli ambientalisti sono preoccupati principalmente del danneggiamento ecologico provocato dall’agricoltura, e sono inclini a raccomandare soluzioni che gli agricoltori sostengono che metterebbero a soqquadro l’approvvigionamento alimentare. Gli agronomi tradizionali sono preoccupati principalmente per l’approvvigionamento – e a volte tendono a raccomandare soluzioni che potrebbero peggiorare i danni ambientali.
Una parte della gente è preoccupata principalmente per le iniquità del sistema alimentare mondiale: che un miliardo di persone nella fascia alta stiano uccidendo se stesse nutrendosi in modo eccessivo, mentre un altro miliardo di persone povere vivano alla disperata, circondate dalla malnutrizione.
Come possiamo risolvere tutt’e due le cose in una sola volta?
È un compito arduo, ma alcuni stanno iniziando a cercare di far sì che la politica agricola mondiale imbocchi uno sviluppo incoraggiante.
Ecco una nuova interessante puntata nella storia della Grande Soluzione. Si tratta di un’analisi di un gruppo internazionale di scienziati guidati da Jonathan A. Foley, direttore dell’Istituto per la protezione dell’ambiente presso l’Università del Minnesota.
Il loro trattato, Soluzioni per un pianeta coltivato, è stato pubblicato online e sarà prossimamente l’articolo di copertina del numero 20 di Ottobre della rivista Nature. Il Dr. Foley sta anche per pubblicare un pezzo nel numero di Novembre della rivista Scientific American, in edicola la prossima settimana, che riassume in linguaggio per profani l’analisi del team.
Il gruppo ha capìto, come altri prima di loro, che l’obiettivo di raddoppiare la produzione alimentare mondiale nei prossimi decenni potrebbe anche essere raggiunto, anche se con notevoli difficoltà.
La cosa interessante dell’analisi secondo me è che il problema non viene trattato considerando solo il sistema alimentare – vengono invece poste sullo stesso piano la questione ambientale, il problema dell’approvvigionamento e quello dell’equità, spiegando che in questo caso particolare tutte queste problematiche vanno affrontate contemporaneamente.
“Nutrire nove miliardi di persone in modo veramente sostenibile sarà una delle più grandi sfide che la nostra civiltà abbia mai fronteggiato” dice il Dr. Foley nell’articolo su Scientific American, riferendosi alla proiezione di quello che sarà la popolazione mondiale a metà del secolo. (Egli sottolinea alcuni dei collegamenti tra i problemi ambientali e l’agricoltura in questo discorso, e il suo gruppo ha creato un famoso clip animato, che dà la misura della grandezza del problema qui).
Molti elementi del nuovo articolo saranno familiari ai lettori che seguono già queste problematiche. Eppure è interessante vedere questi mattoni da costruzione di un sistema del cibo più intelligente spiegati in un solo documento, con le crude cifre scolpite.
Tanto per cominciare, il gruppo sostiene che è necessario interrompere immediatamente la conversione delle foreste e delle praterie ad uso agricolo; i danni ambientali che stiamo facendo abbattendo la foresta Amazzonica superano decisamente il piccolo aumento della produzione alimentare.
Inoltre, l’articolo sostiene che l’incremento della produzione alimentare deve provenire da terreni agricoli esistenti, intensificando la produzione nelle regioni del mondo dove i rendimenti sono bassi: L’india nord-orientale, l’Europa dell’est, parte del Sud America e gran parte dell’Africa, tanto per fare degli esempi.
Se il raccolto in queste regioni potesse essere portato entro il 75 per cento del loro potenziale attuale utilizzando metodi di coltivazione moderni, tra cui fertilizzanti e irrigazione, la disponibilità mondiale di prodotti alimentari potrebbe crescere del 28%, dice l’articolo. Se il raccolto fosse portato al 95 per cento del potenziale, vicino a quello ottenuto dai paesi ricchi, l’aumento dell’offerta raggiungerebbe un enorme 58 per cento.
Il documento non lo dice, ma ho il sospetto che un tale sviluppo sarebbe bastevole per invertire il rialzo dei prezzi alimentari degli ultimi anni.
Un’altra strategia importante di cui si parla nel documento è quella di migliorare l’efficienza dell’agricoltura nei posti dove il rendimento è già elevato. Se gli agricoltori africani necessitano di più fertilizzanti, quelli Statunitensi ne hanno bisogno di meno.
L’articolo sostiene essenzialmente che è possibile ottenere alti rendimenti con meno sostanze di sintesi e meno acqua, cosa che non solo ridurrebbe l’inquinamento, ma in alcuni casi anche i costi per gli agricoltori.
E, infine, nel documento si sostiene che una quantità maggiore del cibo che cresce sui campi deve finire nei piatti della gente. Questo significa ridurre gli sprechi alimentari, non solo il genere così comune delle cucine occidentali, ma anche la terribile perdita post-raccolto causata dalle condizioni di cattiva conservazione nei paesi poveri.
E questo significa una virata della nostra dieta da carne e latticini, che non è possibile produrre in modo sostenibile, verso le piante. L’articolo assume che una migrazione massiva verso il vegetarianesimo è improbabile, ma sostiene che anche semplici modifiche – come portare molte persone a passare dal meno sostenibile manzo al più sostenibile pollo, per esempio, farebbe la differenza.
Nel documento si evita volutamente di prendere posizione nelle guerre ideologiche che coinvolgono settore alimentare. Non viene adottato il ragionamento di sinistra che vedrebbe la produzione biologica come la risposta alle questioni alimentari del mondo, ma neanche la visione di destra, che affiderebbe al mercato la soluzione di tutti i problemi.
Si discute su come tirare dentro il sistema convenzionale le buone idee che provengono dai movimenti alimentari emergenti – ma solo se queste potrebbero essere utili a raggiungere contemporaneamente i tre obiettivi di incrementare la disponibilità alimentare, ridurre i danni ambientali e migliorare la sicurezza alimentare.
In quanto rapporto scientifico, e non documento politico, l’articolo di Foley non offre grandi novità propositive su *come* fare in modo che tutto questo accada. Molti commentatori che hanno studiato questi problemi sono arrivati alla conclusione che gli ostacoli non sono di tipo tecnico, ma constano nella mancanza della volontà politica di risolverli, che si traduce nella scarsità degli investimenti pubblici per quello che riguarda l’agricoltura.
Nel suo articolo su Scientific American, il Dr. Foley fa una proposta intrigante. Puntando il dito sul sistema di certificazione che ha incoraggiato la costruzione di edifici ecologici, chiede: “Perché non pensare a un nuovo sistema di certificazione per i generi alimentari prodotti in modo sostenibile?”
Invece di soddisfare unicamente una predilezione ideologica, vale a dire il modo nel quale attualmente il marchio del biologico si comporta al momento, la nuova certificazione potrebbe essere basata su un sistema che elargisca punti per tutto ciò che è di pubblica utilità e li sottragga per i danni ambientali.
Gli alimenti prodotti nel modo più sostenibile otterrebbero i punteggi più alti, oppure le lettere di grado più alto. Se i consumatori cominciassero a riconoscere questo sistema, questo tipo di certificazione potrebbe mettere le aziende e gli agricoltori sotto pressione e indurli a rivedere le loro scelte.
“Questa certificazione ci aiuterebbe ad andare oltre la classificazione attuale del cibo come “locale” e “biologico”, che non dice molto su cosa stiamo mangiando” scrive il Dr. Foley su Scientific American.
Posso solo immaginare le battaglie ideologiche che esploderano se questa idea dovesse essere presa sul serio. Eppure alcuni degli elementi necessari sono già al posto giusto, come i tentativi che si stanno facendo in Europa per misurare l’impronta ecologica dei vari alimenti.
Se gli scienziati che non hanno interessi da difendere potessero avere il controllo del sistema di certificazione, usandolo come veicolo per applicare severi criteri di rendimento ai sistemi agricoli mentre convertono la certificazione in un marchio mondiale, il mondo potrebbe avere un nuovo e potente strumento per migliorare l’approvvigionamento di cibo – e la salute del pianeta.


Ecco fatto. Voi che cosa ne pensate?
Vi dò qualche spunto, se non dovesse essere abbastanza quello che avete appena letto; diciamo un riassunto veloce e pastonudista (=pratico) del discorso :-)
Assunto: il cibo è poco per nutrire tutta la popolazione mondiale, e sarà sempre meno in proporzione man mano che si va avanti.
– Per risolvere la situazione alcune persone stanno considerando l’ipotesi di ragionare a livello globale invece che ognuno per il suo orticello (e su questo… insomma, di che stiamo parlando – ci volevano i trattati su Scientific American?);
– non si sa come fare in modo di produrre di più (fertilizzare di più i paesi poveri? Di meno quelli ricchi? incrementare la produzione di quelli pigri?); nondimeno ci si rende conto che l’approccio attuale non è sostenibile da nessun punto di vista (quando ho visto il video mi sono messa a piangere), però siccome non si vuol fare un discorso politico (eh?) non ci si schiera e si preferisce dire che hanno ragione tutti;
– bisogna mangiare mooolta meno carne e più prodotti della terra (ma daiii!!! sono basìta da questa rivelazione);
– si sta pensando ad una certificazione a punti invece di quella normale, che effettivamente fa acqua da tutte le parti (soprattutto negli Stati Uniti, ho letto).
A me sembra un discorso confuso. Voglio dire, sono molto felice che le alte sfere si stiano muovendo per risolvere il disastro nel quale siamo immersi fino al collo, ma ho la sensazione che stiano ancora brancolando nel buio. A parte l’intuizione che sopravvivere bisogna farlo tutti insieme, e che *tutti* dobbiamo mangiare molto meno, e sprecare ancora meno.
Ma si continua a pretendere di risolvere le cose dall’alto, piuttosto che responsabilizzare ed erudire la popolazione; vorrei veramente ma veramente che la gente agisse in modo sostenibile perché è giusto, e non perché vuole ottenere punti.
Voglio sapere cosa ne pensate voi. La mia visione è sicuramente parziale e ho bisogno di confrontarla con la vostra. La regola la sapete, è solo una: niente aggressività (no, neanche mascherata da sarcasmo), tutto il resto è benvenuto :-)
English version:
Brotherhood or Death