Giorni fa vagabondavo bel bella sulla rete quando mi sono imbattuta nel sito della mia amica Sonia che ben conoscete, e trovo la scheda tecnica della farina che uso ogni giorno, con tutte le specifiche, compresa la quantità di glutine e quella di proteine.

Quando ho letto che la percentuale di glutine delle farine suddette era il 14,2% sono quasi caduta dalla sedia, perché ricordavo che la famigerata Manitoba, che ho escluso definitivamente dalla mia dieta, ha quasi la stessa quantità di glutine. Nella scheda mancava però l’indicazione dell’indice di forza della farina, che viene espressa con la lettera W, e che se non sbaglio nella Manitoba supera i 400W.
Per farvi capire meglio la cosa, vi dico che questo indice, che è uno dei parametri che caratterizzano la farina, si misura con una macchina buffa che si chiama Alveografo di Chopin (che non è il musicista ma il comune mortale che si è inventato questo apparecchio). Si impasta la farina che si vuole misurare con una certa quantità d’acqua, fino a farne una specie di pallina elastica; poi si schiaccia questa pallina come una pizzetta e si inserisce nella macchina, che la soffia come una bolla di sapone.
L’apparecchio registra l’aumento della pressione della bolla fino a quando questa non si rompe, e lo traduce in un grafico che si chiama alveogramma, dal quale poi con dei calcoli matematici molto semplici si ricava l’indice di forza.
Se volete approfondire, Dario ha scritto un bel post su questo argomento, nel quale spiega ampiamente come vengono classificate le farine e come se ne misura la “forza”; c’è anche una foto del famigerato alveografo in azione.

Per capire come mai la farina antica che uso ha quasi la stessa quantità di glutine della Manitoba ma non è “forte” come quest’ultima (anzi devo fare molta attenzione quando impasto che non si rovini la maglia glutinica per non avere un pane piatto) ho chiesto ovviamente lumi al nostro prof., che mi ha indicato un testo universitario molto interessante da leggere, che si chiama “Biotecnologia dei prodotti lievitati da forno”, (i coordinatori del libro sono due docenti universitari, i professori Gobbetti e Corsetti), nel quale lui ha scritto un capitolo sulle allergie al grano.

In realtà gli avrei anche chiesto di scrivere un post proprio su questo tema (ehm, dovevo almeno provarci) ma per adesso è impossibile perché è troppo impegnato con un libro che dovrebbe uscire a Natale sull’alimentazione in gravidanza (però su Valore Alimentare trovate vari suoi articoli sull’argomento).
Ecco quello che ho capito da ciò che ho letto.
Dovete sapere che il glutine non è composto da un solo tipo di proteine (insolubili in acqua) ma da due diversi tipi, le gliadine e le glutenine. Le proprietà panificatorie della farina non dipendono solo dalla quantità di glutine presente, ma anche dal rapporto tra queste due categorie di proteine, e dalla presenza in esse di certe frazioni. La gliadina dà soprattutto l’estensibilità, la glutenina la tenacità. Insomma la cosa è un po’ più complicata di quanto si pensa comunemente.
La selezione genetica iniziata da Strampelli agli inizi del secolo scorso e poi continuata negli anni ’50 con il ricorso alla mutagenesi (cioè dei trattamenti del grano con radiazioni nucleari per modificare il suo patrimonio genetico), ha portato al Creso.
Dal Creso sono derivate le varietà di grano duro che oggi vanno per la maggiore; queste varietà concimate massicciamente con i nitrati hanno una resa superiore anche del quadruplo, e hanno una quantità di glutine un po’ più alta, ma il vero problema è che ad aumentare è stata quasi esclusivamente la gliadina. Questa gliadina purtroppo contiene delle frazioni proteiche responsabili delle allergie al grano (omega gliadina) e della celiachia (alfa gliadina).
Tutto questo per dirvi che è sbagliato focalizzare sulla *quantità* di glutine (tipo: “non posso mangiare questo tipo di farina perché ha troppo glutine”); bisognerebbe concentrarsi piuttosto sulla *qualità* di questo glutine, che pare cambiata decisamente in peggio (per quanto riguarda la nostra salute) nel tempo, sia per il “miglioramento” genetico sia per le concimazioni eccessive con i nitrati, al fine di aumentare le rese.
Attualmente i ricercatori hanno iniziato a cercare una soluzione che salvaguardi quanto di buono è stato fatto in passato in termini di produttività, ed elimini però la necessità di concimare in questo modo.
Forse una soluzione potrebbe venire proprio da alcune varietà antiche lasciandole come sono, o al limite facendo una selezione “partecipativa”, che cioè coinvolge anche gli agricoltori consapevoli. In questo modo a decidere non sarebbero solo gli scienziati, che di solito peccano di avere troppa testa e poco cuore, o addirittura risentono delle sovvenzioni per la ricerca che vengono dalle multinazionali (OGM docet).
Intanto quello che possiamo fare per migliorare la nostra digestione, se non abbiamo ancora particolari intolleranze, è cercare di utilizzare farine provenienti da piante meno “migliorate” possibile, e soprattutto variare spesso ciò che mangiamo. Esistono il farro, la segale, il grano saraceno, il riso, e una miriade di altri cereali e non cereali ai quali attingere: cerchiamoli, acquistiamoli e utilizziamoli ruotando il consumo ogni giorno.
Una persona molto interessante che ho conosciuto a Torino mi diceva, circa le intolleranze: “È vero che il frumento ha dei grandi problemi, ma io credo che qualsiasi cosa mangiassimo tre volte al giorno ogni singolo giorno della nostra vita ci farebbe diventare intolleranti”.
Quei concetti ovvii che ti pietrificano o_O