Dopo la pessima figura fatta con la campagna di appoggio alla crociata contro l’olio di palma di Mr. Sokolof, il magnate americano sopravvissuto all’infarto, si poteva pensare che il Center for Science in the Public Interest (che d’ora in poi per brevità chiamerò CSPINT) avrebbe dato forfait riguardo al suo piano di criminalizzazione dell’olio di palma.
olio di palma
(Illustrazione di Gustav Mützel, tratta da Dictionnaires et Encyclopédies sur “Academic”)
Invece no: nel 2005 torna alla carica con una pubblicazione dal titolo apocalittico: “Cruel oil: How palm oil harms health, rainforest and wildlife”.
Questa volta i soloni di CSPINT non insistono più di tanto col vecchio ritornello dell’olio di palma che fa male al cuore perché ricco di grassi saturi. A questo tema, infatti, dedicano soltanto 5 delle 40 pagine della pubblicazione. Il loro atteggiamento appare piuttosto soft.
Fanno valutazioni moderate del tipo (a pagina 2) “l’olio di palma, mentre non è nocivo come l’olio di soia parzialmente idrogenato (ma non erano stati proprio loro a proporre l’olio di soia idrogenato come alternativa all’olio di palma?), è tuttavia meno salutare (da notare la finezza semantica del “meno salutare”) di altri oli vegetali”; si cita anche (a pagina 4) la raccomandazione di un’istituzione nazionale preposta alla salute pubblica di “ridurre gli alimenti ad alto contenuto in grassi saturi come carne, burro, latticini con grassi, uova, grassi come il lardo, e alimenti con olio di palma o di cocco”; affermazione nella quale potremmo intravedere addirittura l’intento di affermare il principio politichese del tutti colpevoli, nessun colpevole.

Sono sicuro che a questo punto vi starete chiedendo: “se non c’è la solita criminalizzazione salutistica, quale nuova accusa il CSPINT muove all’olio di palma?”. Ebbene, l’accusa ha una connotazione ambientalista che è la seguente: la produzione di olio di palma è la causa della distruzione delle foreste del sud-est asiatico (Filippine e Malesia). Con tutte le conseguenze che ne deriverebbero dal punto di vista ecologico, tra cui il rischio di scomparsa dell’orangotango, una specie di ominide endemica di quelle regioni, e di altri animali che nella foresta hanno il loro habitat naturale.

Una precisazione importante ai fini di quanto vi dirò più avanti. Per dichiarazione degli stessi autori, la pubblicazione è stata scritta utilizzando “informazioni fornite da Eric Wakker dell’AIDEnvironment”, un’organizzazione ecologista olandese operativa nel sud-est asiatico.

La distruzione della foreste del sud-est asiatico

Lo scenario presentato nella pubblicazione è inquietante. Si legge (a pagina 8): “Fino al 1950 la foresta copriva ancora il 77% della superficie terrestre (dell’Indonesia) […] Perdite drastiche tra il 1980 e il 1990 lasciarono soltanto metà della terra coperta a foresta nel 1997. A questo tasso (di distruzione), virtualmente tutta la foresta tropicale pianeggiante indonesiana — che è la parte più ricca in specie animali e vegetali, sarà distrutta nel 2010. Una causa preminente di questa situazione è stata la deforestazione (per produrre olio di palma e legname)”.
A dar man forte al CSPINT in questa nuova crociata anti-olio di palma in formato ecologista sono intervenute alcune organizzazioni non governative con dichiarazioni tipo: “solo nel sud-est asiatico vengono deforestati ogni ora l’equivalente di 300 campi di calcio per piantare palme da olio”.

Le cose stanno davvero così?

Nel suo documento Lo stato delle Foreste del mondo del 2011 la FAO riconosce che tra il 1990 e il 2000 nel sud-est asiatico ci sono stati tassi di deforestazione elevati, ma afferma anche nella prima decade del 2000 il trend si è invertito drammaticamente con una riduzione dal 2000 al 2010 del 50%.
Ergo, anche questa volta il CSPINT non c’ha azzeccato. La foresta non è scomparsa, anche se sta subendo le mutilazioni che vengono operate in tutte le foreste che coprono la superficie di questo maltrattato pianeta per recuperare suoli da destinare alle coltivazioni. Tra queste c’è la foresta amazzonica, che le multinazionali stanno deforestando per far posto alle coltivazioni di soia e mais transgenici con cui viene nutrito il bestiame di mezzo mondo. A proposito, perché non si parla tanto di questa deforestazione, e soprattutto non se ne parla in termini così apocalittici? Mistero; anzi no, nessun mistero, le ragioni sono chiare e se ne potrebbe parlare in un prossimo post (se vi interessa, fatemelo sapere).
Fortunatamente, per le foreste del sud-est asiatico sono in atto iniziative per rendere sostenibile la produzione di olio di palma. E tra queste c’è anche quella dell’IFOAM, la Federazione internazionale dei movimenti di agricoltura biologica. Chi fosse interessato può scaricare il documento “Defining substainability in oil palm production: an analysis of existing sustainable agriculture and oil palm iniziatives”.

La perdita della popolazione di orangotango conseguente alla deforestazione

In lingua malese “orangotango” significa “uomo della giungla”. Ci sono solo due specie di orangotango che vivono fuori dell’Africa, e queste popolano proprio le foreste del sud-est asiatico (Borneo e Sumatra). Per questo la loro scomparsa sarebbe molto grave in termini di biodiversità.
A proposito di queste due specie di orangotango, nella pubblicazione si legge (a pagina 12): “Entrambe le specie sono in crisi e, dato il tasso corrente di declino, esse potrebbero estinguersi entro 10 anni” (la pubblicazione è del 2005, quindi l’estinzione dovrebbe avvenire nel 2015, cioè tra 2-3 anni). Questa previsione è stata fatta propria da alcune ONG. Un organismo denominato “the Rainforest Action Network”, è andato addirittura oltre, azzardando la previsione che, sempre per colpa dell’olio di palma, l’estinzione dell’orangotango sarebbe dovuta avvenire entro il 2011. Alcune ONG accusano anche l’industria dell’olio di palma di agire deliberatamente per far scomparire l’orangotango perché danneggia le piantagioni di palma.
Il CSPINT ci sta azzeccando stavolta? No, perché grazie a Dio, un recente censimento prova che la popolazione di orangotango conta attualmente 50 mila individui, compresi i 2000 che sono stati scoperti nella provincia indonesiana di Est Kalimantano. Ed è da escludere che alla scadenza della profezia di CSPINT, cioè nel 2015, gli orangotango scompaiano per incanto come accadde per i dinosauri, considerato anche che l’Indonesia si è pure data una regolamentazione per proteggere questi animali.

Il ruolo delle ONG in questa faccenda

Come avrete intuito leggendo quanto ho scritto finora, da parte delle ONG c’è molto attivismo contro le piantagioni di palma. Sarà puro fervore ecologista o c’è un fine meno nobile che muove queste ONG? Non sono in grado di dare una risposta, ma c’è chi ne azzarda una piuttosto piccante. È l’organizzazione politica italiana, Libertiamo, che dichiara di essere nata con l’intento di promuovere le idee del liberismo classico. Secondo questa associazione, ci sarebbe una collusione tra le ONG che fanno campagne ecologiste contro la produzione di olio di palma e l’Unione Europea che le finanzierebbe affinché, attraverso la loro azione anti-olio di palma, si convincano i consumatori europei a boicottare quest’olio e a consumarne altri di produzione europea, come lolio di girasole e di colza. Insomma si tratterebbe di un’operazione di protezionismo. Fantapolitica commerciale o le cose stanno realmente così? Non intendo entrare nel merito della questione.
Ognuno di voi, se è interessato, può approfondire questo aspetto scaricandosi il documento “Disarming the greens: taxpayer funding, NGO collusion and manufacture crises” prodotto appunto da Libertiamo, o il report intitolato “Friends of the EU” pubblicato dall’organizzazione inglese non governativa International Policy Network.

Ma allora, tutto bene per le foreste del sud-est asiatico e per la popolazione di orangotango?

La risposta non è confortante. Purtroppo queste foreste sono ora minacciate davvero dalle coltivazioni di palma; non tanto però da quelle finora destinate alla produzione di olio per uso alimentare, quanto da quelle destinate alla produzione di olio da utilizzare come biocarburante. In questo affaire stanno mettendo le mani (e miliardi di dollari) le multinazionali, sempre disposte ad investimenti colossali (e alla corruzione di politici locali) per fare affari d’oro, costi quello che costi in termini di degrado ambientale e sfruttamento della povera gente locale (sfruttamento del petrolio perpetrato finora docet).
Ci tengo però a sottolineare che le due questioni, olio di palma per uso alimentare e olio di palma come biocarburante non vanno messe nello stesso calderone. Altrimenti, per il consumatore, l’affaire olio di palma diventa ancora più confuso di quanto non lo sia già. Perché quando c’è di mezzo il mercato e il danaro, noi comuni mortali siamo sempre destinatari della disinformazione più becera.

Concludo con la mia solita raccomandazione

Quella dell’olio di palma che contiene i grassi saturi che fanno male al cuore è soltanto una pagliuzza. La trave è che noi, con il cervello frullato dalla pubblicità, abusiamo di prodotti industriali che, oltre all’olio di palma, contengono tanto zucchero, tanti additivi e tant’altro ancora di nessun valore nutritivo.
La soluzione c’è: evitare di eccedere in questi prodotti e tornare ad un’alimentazione ricca di prodotti freschi, ovviamente di qualità. Ciò significa anche rimettere al centro della nostra alimentazione il mediterraneo olio di oliva, così salutare e saporito che nessuna campagna denigratoria sarebbe capace di disonorare, nemmeno se a farla ci fosse il miliardario fanatico di turno.