Tra le tante sfumature di cui l’alimentazione si ammanta forse la tradizione (non la nostra in particolare, le usanze in genere) è quella che mi è in assoluto più cara. Cosa lasciamo a chi rimane dopo di noi? Solo l’energia che siamo stati; il coraggio, l’amore, la lealtà, se siamo stati forti, o la paura, la malignità, l’invidia, se siamo stati smarriti, se eravamo tra quei deboli che sono scivolati sulla vita.

E a parte il lato spirituale, che può essere o no condiviso, di pratico l’unica cosa che possiamo tramandare è la nostra esperienza. Chi ha avuto la fortuna di accedere alla cultura può annotare per i posteri la propria evoluzione lavorativa, affettiva o filosofica che sia, e dar modo a chiunque ne abbia voglia di attingere al sapere da una posizione privilegiata, molti gradini più su che se dovesse cominciare da capo.
Ma tutti, indistintamente, poveri e ricchi, nel corso della propria vita devono arrangiarsi per mangiare, e proprio questa credo sia l’esperienza più preziosa da tramandare. Quella che difficilmente si trova nei libri, perché per la maggior parte proviene da chi ha dovuto necessariamente essere creativo, avendo poco, per mettere comunque insieme colazioni, pranzi e cene, magari diverse tra loro nonostante gli ingredienti fossero simili, per tutto il corso della sua vita.

Questo tipo di conoscenza è necessariamente molto legata al mondo rurale (le piante vengono dalla terra, gli animali pascolano sulla terra, o meglio questo è quello che dovrebbe essere, anche se nei mala tempora che currunt pare che le cose siano diverse e che tutto il cibo indistintamente provenga da vassoietti di polistirolo impellicolati su scaffali illuminati al neon).
Quindi sto parlando non solo di come si cucina ciò che abbiamo a disposizione nella stagione in cui è effettivamente a disposizione, ma anche di come si conserva il cibo abbondante delle stagioni generose per gioirne in quelle più avare (marmellate, succhi di frutta, conserve di ogni tipo), in modo da non intossicarsi, magari mortalmente, come una volta accadeva spesso.

A questo proposito vorrei ricordare a chi accusa le persone che credono nel recupero delle conoscenze passate (a buon intenditor…) che non siamo più nel medioevo e nemmeno negli anni cinquanta, e per recupero si intende qualcosa di mediato dalle conoscenze e dalla tecnologia che abbiamo adesso, e che nessuno ha intenzione di rinnegare.
Nelle conoscenze che nel tempo ci siamo persi (o direi molto meglio “che ci sono state sottratte”) rientrano anche il cibo (e gli artigiani) da strada (a Napoli avevamo l’acquafrescaio, il carnacuttaro, i venditori di aglio, e poi il brodo di purpo quando sul lungomare tirava la tramontana, lo stagnaro che stagnava le pentole di rame, e tante altre voci che animavano le strade; ma insomma sono certa che ognuno di voi avrebbe qualcosa, che gli è stato raccontato, da raccontare).

Tutto questo spero di riuscire a trasmettervi in questa rubrica. Come avere a che fare con il cibo, quello vero e sudato, non quello facile, e come gestirlo, conservarlo, suddividerlo, nel modo più semplice e veloce possibile, ma senza compromessi. Finora non avevo trovato nessuno in grado di fare tutto questo, o che lo fosse e avesse anche la motivazione per farlo. Adesso mi sembra di aver ravvisato in uno splendido chef campano, un giovane combattente che mi pare instancabile, qualcuno che può raccontarci cose che noi esseri umani… Ascoltatelo e mi direte. Io, che le mie nonne quasi non le ho conosciute, sono ipnotizzata da costui.

Ciao a tutti. Per prima cosa devo dirvi che sono molto felice di poter condividere la mia esperienza attraverso questa finestra che è il Pasto nudo.
Intanto mi presento: ho trent’anni e vivo a Palma Campania, in provincia di Napoli; un posto dove per fortuna c’è ancora una cultura molto legata al territorio, ai prodotti e alle tradizioni della comunità contadina, che per secoli ha fornito frutta ed ortaggi ai mercati di Napoli ed è ancora caratterizzata da attività rurali e mestieri antichi come l’allevamento di piccoli animali da cortile e la cottura del pane in forni a fascine.
Ho cominciato a cucinare a sette anni, nella pasticceria di mio zio e nella cucina di mia nonna; appena ho avuto diciott’anni ho cominciato a farmi le ossa in alberghi e ristoranti di lusso in tutta Europa, e ho avuto maestri come Alain Ducasse.

Dopo dodici anni ho deciso di tornare alle radici e aprire proprio a Palma Campania un ristorante tutto mio, che ho chiamato “Era Ora”. Dopo le prime inevitabili difficoltà, dovute al fatto che qui da noi la gente è abituata la cibo molto semplice e ogni guizzo creativo viene guardato con un po’ di sospetto, ho capito che andare verso quella semplicità era la scelta più giusta e naturale, e ho cominciato a interessarmi a tutto ciò che questo meraviglioso (e spesso sofferente) territorio offre, ancorando saldamente la mia cucina alla tradizione, senza però dimenticare l’innovazione, che rimane sempre il mio obiettivo. Sono molto aperto alle nuove tecniche, mi piace cucinare a vapore, sottovuoto e sperimentare in genere.

Credo che sia assolutamente fondamentale ritornare in possesso delle tradizioni culinarie delle nostre campagne, che abbiamo perso nel tempo, e ho speso molto del mio tempo e del mio lavoro annotando i racconti di chi ha avuto la gentilezza di farmeli, in genere persone ormai molto anziane (qualcuna magari ve la presenterò), ma anche un sacco di persone che grazie al cielo ancora ricordano, e che hanno la saggezza e la lungimiranza di raccontare e tramandare.
Qui sul pasto nudo spero di riuscire a mostrarvi come acquistare cibo degno di questo nome a buon prezzo, trasformarlo senza rischi per la vostra salute e in modo semplice e veloce. In cambio mi aspetto solo che diffondiate tutto quello che vi racconterò, perché la sapienza venga trasmessa a macchia d’olio utilizzando il mezzo che ognuno di noi ha a disposizione, non costa nulla e fa benissimo ai rapporti sociali: un bel vecchio e sano passaparola, magari anche usando la tecnologia.
Guardiamo al passato, ma interpretiamo il futuro :-)
Pietro Parisi