Ho pensato parecchio all’argomento del secondo post di maggio. Perché quello che mi sta a cuore scrivere è forse troppo discorsivo, o serio, o filosofico, o solo blabla. Ma Izn mi ha dato carta bianca, e così ho la fortuna di seguire l’istinto, e la necessità. Perché, se è vero che il lettore-medio del Pasto Nudo è molto consapevole, per quanto riguarda il nutrimento del proprio cervello (e del proprio corpo), è vero anche che, ultimamente, parecchie persone (beh, sì, parecchie) mi chiedono delle cose dandone per scontate altre. Che scontate non sono.
stagionalità primavera
Una mia conoscente, per esempio, mi ha chiesto come si chiama il blog macrobiotico per il quale scrivo. Un altro (appassionato frequentatore di queste pagine, peraltro) mi ha detto che sì, legge le etichette, ma che però lui vegetariano come me non ce la farà mai, a diventarlo. Allora mi sono fermata, perché ho pensato di essermi espressa male. E per 16 volte.
Ho riletto tutti i post scritti finora. Prima cosa: dò per scontato che i lettori siano giá passati per l’introduzione di Izn. Forse perché è la prima cosa che faccio io, quando visito un blog o un sito internet. Ecco, io la condivido in tutto. Anche perché, altrimenti, non ci scriverei, qui. Poi, stupidamente, penso che i lettori abbiano già letto pure la mia, di presentazione.
Però, sarà maggio, sarà che è tempo di pulizie e chiarimenti, sarà che sono anche stufa di gente che mi fa sentire in colpa perché non compero compero compero e così l’economia non riprende e per colpa mia e di quelli come me l’Italia non uscirà mai dalla crisi. Sarà che penso spesso, ultimamente, all’auto-limitazione cosciente auspicata più di vent’anni fa da Alex Langer. Fatto si è che ho bisogno di scrivere del significato del titolo di questa rubrica.

Non ho scelto di viaggiare leggera. Ho scelto di seguire l’uomo che amo, istintivamente, sventatamente, lasciando le cose alle quali ero abituata da trentaquattro anni. E mi accorgo solo ora che, dal punto di vista alimentare, sono stata educata abbastanza bene. I miei genitori non sanno nulla di chimica e nutrienti, non sanno quali cibi contengono gli Omega3 o l’acido folico. Si fidano semplicemente di quello che i loro genitori ed i genitori dei loro genitori hanno portato in tavola per generazioni. Del tutto inconsapevolmente. Anzi, no: consapevoli del fatto che, se generazioni e generazioni avevano sperimentato e sperimentato e si erano fatte venire il mal di pancia ed alcuni erano persino morti, magari, per aver mangiato il fungo sbagliato, era abbastanza stupido deviare ed allontanarsi troppo dalle indicazioni ricevute.

Perché, allora, ad un certo punto della mia vita, ho iniziato a far colazione con brioches e cappuccino, e non con pane e marmellata (fatti in casa), come mia madre? O a comperare cioccolate, o affettati in dose plurisettimanale? Il divertente di tutto questo è che i miei genitori, nel frattempo, continuano imperterriti per la loro strada alimentare, senza spostarsi di un millimetro. Come se avessero una sorta di radar, o di bussola. Una sicurezza vecchia di generazioni che nemmeno la pubblicitá piú martellante e luccicosa può scalfire. E mia madre sembra non sentirli proprio, i richiami delle sirene dagli scaffali del supermercato. Ma come? Ipnotizzano solo me?
Qui, invece, appena arrivata, ho iniziato a mangiare come i miei vicini. Perché mi hanno sempre detto che si deve mangiare quello che mangia la gente del posto. Ed io, moooolto naif, ho copiato una generazione stordita, che (per motivi socio-culturali complessi) voleva cancellare un passato pesante, anche dal punto di vista alimentare. L’ex-ddr medio: un individuo che (a parte la storia delle banane), non ha mai avuto la possibilità di strafogarsi di merendine e patatine surgelate prefritte e precotte. Fino alla caduta del muro, quando ci si è buttato a pesce (ma di quei pesci tagliati a bastoncini e impanati e fritti).
Eccomi qui, esposta al pubblico ludìbrio, senza vergogne, a mò di donna baffuta sotto il tendone del circo: ebbene sì, sono un esempio di quello che gli studiosi chiamano transizione nutrizionale. In parole semplici, come quelle che usa il professor Giovannangelo Oriani (che ammetto a me sconosciuto fino a mezz’ora fa): “aumento del consumo di alimenti ad alta densità calorica (=troppe calorie per unità di peso) e sedentarietà”. Punto. Tutto qui. Mangiare meno (e meno concentrato) e alzare il culo da questa sedia (scusate l’eufemismo).
La definizione che lui dà di transizione nutrizionale mi ha imbarazzata: “Gli investimenti nella ricerca agroalimentare ed i notevoli progressi nelle tecnologie di produzione hanno portato ad un drammatico aumento della disponibilità di alimenti […] pur senza risolvere il problema della denutrizione nei paesi in via di sviluppo. […] La transizione nutrizionale è caratterizzata dagli enormi cambiamenti che si sono verificati negli ultimi vent’anni del 20° secolo sia nella dieta che nell’attività fisica. Le società moderne sembrano convergere su una dieta ricca di grassi saturi, di zuccheri aggiunti, di più prodotti di origine animale, ma povera in fibre e su uno stile di vita caratterizzato da scarsi livelli di attività fisica.”
Ecco. A differenza dei miei genitori, che ancora oggi camminano quotidianamente almeno mezz’ora e lavorano i campi, a me, nei primi anni di vita baltica, tra isolamento sociale e territoriale, ha fatto difetto il movimento fisico. Che è quello che salva i tedeschi dall’estinzione tipo dinosauri, visto che fin dalla scuola materna sono sempre all’aria aperta, a piedi o in bici, con qualsiasi temperatura e condizione atmosferica. E il loro motto è: “Non esiste brutto tempo. Esistono solo indumenti non adeguati”. Adoro questa frase.
Per rispondere alla domanda del lettore: no, non sono vegetariana (semmai, flexitariana). Ma sto cercando di eliminare tutto ciò che non è carne. Almeno nel senso in cui la intendevano i miei genitori. Cerco di mangiare carne non industriale e, soprattutto, *in quantità* non industriale. E così cerco di fare con tutto quello che fa sì che io sia quella che sono.
Certo, è complicatissimo. Bisogna fare delle scelte. Di vita. Di lavoro. Di posto in cui vivere. Due settimane fa, dopo un’ora di giochi in spiaggia con 5 gradi e vento freddo, mi è venuta voglia di biscotti, o di qualcosa di dolce. Sono entrata nel negozietto biologico lì vicino, e ne sono uscita a mani vuote. Perché non c’era nulla di dolce che non contenesse sciroppo di glucosio (*oltre* allo zucchero, chiaramente) o indistinti grassi vegetali. E io, se non so quello che compero, non compero. Nei limiti dell’umana sopravvivenza, che mica sono morta: no, sono tornata a casa e ho pasticciato una torta con quella piccola esperimentatrice (come dice lei) in miniatura che è mia figlia. Quindi, non è nemmeno un fatto di bio o non bio. Perché anche il bio si è industrializzato, e ci si deve districare anche con quelle, di etichette, ora.
Mancano le indicazioni alimentari per una generazione alla quale non sono mai state tramandate. Per dimenticanza? Per vergogna? E chi, oltre ai genitori, ha la responsabilità di educare i giovani ad un corretto stile di vita? Chi deve fornirci gli strumenti per scegliere tra il cibo vero ed i 17.000 (sì, diciassettemila) nuovi *prodotti alimentari* che ogni anno vengono immessi sul mercato? La scuola? Lo Stato? Una volta era codificato dalle tradizioni religiose (determinati giorni di digiuno, di assenza di proteine animali e di dolci o alimenti troppo calorici o dannosi per il corpo). Oggi, almeno per quanto riguarda la religione cattolica, non ci si fa più caso. Mia madre, alla quale ho chiesto lumi, mi ha risposto che la Chiesa ha detto che non occorre più digiunare, in Quaresima. Ora, lungi da me dare la colpa a Ratzinger dell’obesità crescente dei bambini italici. Ma chi ci guadagna, da tutta questa ignoranza? E chi ci perde?
Per questo ho deciso di viaggiare leggera. Non mi sento più in colpa se non consumo. Se non acquisto. Se ogni volta, prima di comperare qualcosa, mi chiedo se ne ho davvero bisogno. Accendo la televisione e mi sento dire che se non compero devono chiudere le fabbriche. Ora: se per trent’anni ci hanno fatto credere che *dovevamo* avere bisogno di merendine e bevande gassate e sottilette (le sottilette… una delle cose più inutili del mondo… ma ero l’unica che si faceva i toast con le sottilette ed il prosciutto cotto a fette quadrate e il pane *da toast*?), e adesso, come molti di voi, mi sto svegliando dal torpore ipnotico, mi devo forse sentire in colpa? No, grazie.
Se non acquisto il superfluo? Anzi, il dannoso? Perché questi sono i messaggi. Ma allora mi sa che non si è capìta, la lezione che questa famigerata crisi dovrebbe insegnarci. Perché non credo che lo scopo sia quello di riavviare la stessa economia e di ritornare ricchi e di ricomprarci i quattro salti e i tre cellulari. O no? Ogni tanto penso che sia questa, la vera rivoluzione del 2012. Altro che catastrofi planetarie.
Perché, se la vita è una passeggiata in un bosco a primavera, preferisco godermela con uno zainetto leggero, sulle spalle, piuttosto che riempito con venti chili di carabattole inutili, o mezzo litro di benzina ed un paio di scatole di fiammiferi. Figuriamoci poi quei giorni in cui fa freddo e devo attraversare il torrente coi sassi sdrucciolosi, e inizia a grandinare, ed ho per mano una bimba di 4 anni che mi guarda e cerca di capire come si fa a non cadere in acqua…)
Scusate lo sfogo. E buon appetito.