Ecco finalmente il famoso articolo sulle farine che vi avevo promesso da tempo immemorabile; vale a dire tutto ciò che so *adesso* su questo argomento, che rispetto a due anni fa è moltissimo, ma a paragone con ciò che vorrei sapere è quasi nulla. Come i pastonudisti appassionati già sanno, dei problemi del grano e di quello che ne deriva nelle farine che utilizziamo ne parlai già tempo addietro, grazie a Sonia Floriddia.
ancient grains
Fu lei a mettermi in contatto con il professor Giannattasio e a segnalarmi i suoi scritti, che mi fecero comprendere quanto poco fosse salutare la farina manitoba, che infatti poi abbandonai completamente (non riuscii a finire neanche il mezzo sacchetto che avevo ancora in dispensa). Per riassumervi i concetti di base in due parole, tutta la farina che utilizziamo adesso (anche gran parte di quella biologica) proviene da frumenti che sono stati allontanati molto dal loro stato originario per ragioni economiche e logistiche, incrociandoli tra loro ed esponendoli a radiazioni (non *quelle* radiazioni!).
Così facendo abbiamo ottenuto un grano che è molto squilibrato dal punto di vista nutritivo e che contiene una percentuale di glutine molto più alta di quella “primordiale”, che permette ai dolci e al pane di crescere molto più alti, ma purtroppo ha il piccolissimo difetto di rendere sempre più persone talmente intolleranti al consumo di frumento da doverne sospendere completamente l’utilizzo, con complicazioni anche gravissime, a seconda dello stadio di intolleranza.

Per fortuna ci sono molti agricoltori illuminati che hanno ricominciato a coltivare grani antichi, e adesso è di nuovo possibile acquistare farine che provengono dai suddetti, farine che io ormai utilizzo regolarmente e con le quali il pane, a saperlo fare, viene benissimo lo stesso, e sicuramente cento volte più digeribile (e meno gommoso; ma perché poi il pane dovrebbe essere gommoso? Potremmo chiamarlo “effetto manitoba”).
Esiste anche una rete dei semi rurali, che supporta scientificamente e politicamente questi agricoltori che vogliono utilizzare varietà di semi selezionate sul campo da loro stessi, non le solite che vengono scelte seguendo criteri di omogeneità e obiettivi di mercato, cosa che accade anche nell’agricoltura biologica, ovviamente. Biodiversità :-)

Tornando a noi, dopo la decisione di abbandonare la (costosissima) manitoba iniziai a usare e consigliare per il pane principalmente farina di tipo 0 (e per alcuni tipi di dolci e per i biscotti anche la 00), ma ancora non ero riuscita a procurarmi farine antiche e non avevo ancora la misura dell’enorme differenza (soprattutto di digeribilità) che c’era rispetto a quelle convenzionali. In tutto ciò, la nuova crisi è sopravvenuta perché qualcuno mi ha fatto notare che (a prescindere dal tipo di grano da cui provengono) le farine 0 e 00 non ci stanno bene per nulla in un blog dove si parla di alimentarsi in modo consapevole.
Per chi non ne fosse a conoscenza, secondo la legge italiana la farina di frumento tenero deve essere classificata in 00, 0, 1, 2 e integrale; gli sfarinati di frumento duro invece sono classificati come semola di grano duro, semolato di grano duro, semola integrale di grano duro e farina di grano duro (vedi gazzetta ufficiale n.117 del 22-5-2011); per tutti gli altri tipi di grano i mulini possono classificare a proprio piacimento.
Quando mi sono sentita obiettare questa cosa ho dovuto assolutamente capire il perché (mai una volta che riesca ad accettare un dogma); così mi sono messa a spulciare tutto quello che ho trovato in rete (e non), e ho trovato la tragica conferma che è proprio così, la farina 00 e la 0 *non* andrebbero utilizzate se ci si vuole alimentare in modo sano.
chicco di grano
Per spiegarvi perché devo prima di tutto mostrarvi com’è fatto un chicco di frumento, che dal punto di vista botanico è un frutto secco chiamato cariosside. Come potete vedere dal bel disegno sopra (che ho trovato qui) il chicco è composto per l’83% di endosperma (contenente amido e proteine insolubili in acqua: queste ultime nel loro insieme formano il glutine) e per il 3% di germe, ed è rivestito da vari strati esterni (il restante 14%) i più importanti dei quali sono il pericarpo (quello più esterno) e il sottostante strato aleuronico (che nel loro insieme costituiscono la crusca).
I chicchi possono essere macinati con mulini a cilindri di metallo (che si usano comunemente nella produzione industriale) o con mulini a pietra (più frequenti nel biologico e auspicabili nell’alimentazione consapevole). In un mulino a cilindri, di piccole dimensioni e sufficientemente professionale, ci sono tre coppie di cilindri scanalati che ruotano in senso opposto l’uno all’altro e che rompono i chicchi. Le scanalature sono via via decrescenti; la prima coppia “sbuccia” il chicco (e con un passaggio ai setacci si separa la crusca e il germe), la seconda inizia a schiacciarlo (e con un’ulteriore setacciatura si separa il cruschello), e la terza lo schiaccia ancora di più per poi separare ulteriori fibre (tritello). Una quarta coppia di cilindri, stavolta lisci senza scanalature, rende più o meno fine la farina. Inevitabilmente la farina si scalda e si “cuoce” a causa dell’attrito.
La farina 00 e la 0 possono essere prodotte solo con questo tipo di mulino, perché il mulino a pietra non macina abbastanza finemente, e inoltre non ha la possibilità di setacciare le farine prima che crusca, cruschello e tritello si mescolino alla parte interna del chicco (quindi non esistono farina 0 o 00 macinate a pietra). Le macine a pietra girano più piano, e quindi l’endosperma si impasta con il germe e gli olii che contiene (che sono molto sensibili al calore), e la farina assume un colore bianco avorio con piccoli puntini beige scuro.
Ho letto su un libretto che si intitola “La coltivazione familiare del grano per l’indipendenza alimentare”, e che fa parte dei famosi taccuini d’Ontignano: il chicco intero di frumento è un alimento completo […] Ma la farina viene raffinata e sterilizzata ormai da un secolo; si fabbrica così un pane bianco senza valore nutritivo, quasi completamente sprovvisto di vitamine e diastasi, senza germe, senza lo “strato meraviglioso”, e composto quasi solamente di amido indigesto e fermentescibile, per la mancanza di “predigestione” da parte delle diastasi.
Nel libricino c’è anche scritto che sarebbe molto meglio consumare farina che non abbia più di un mese (dopo questo tempo inizia il processo di irrancidimento, n.d.r.), pena annullamento del “potere vitale e di predigestione delle vitamine e delle diastasi, già molto diminuito dopo otto giorni”; Aldo di Fysis scrive però sul suo blog (leggete anche i commenti), che è meglio utilizzare farina che abbia almeno 3 settimane, perché una leggera maturazione non solo migliora le farine e le rende più digeribili, ma le rende anche molto più adatte per fare il pane, poiché aumenta l’assorbimento e la capacità di trattenere l’anidride carbonica sviluppata durante la fermentazione.
Insomma. Arrivata più o meno a questo punto della ricerca mi sono resa conto che era impossibile capire bene la situazione farine senza vedere da vicino un mulino a pietra e capirne il funzionamento, motivo per cui ho rotto le scatole a Rosario Floriddia ogni *singolo* giorno del nostro indimenticabile soggiorno alla Capannina (grazie, grazie, grazie Rosario!!), perché mi mostrasse il funzionamento del loro mulino nuovo di zecca; ma vi farò vedere tutto nel prossimo post, altrimenti come al solito mi cadete addormentati sulla tastiera (già adesso sento un rantolo sospetto).
Per il momento spero di essere stata chiara; se avete domande chiedete, che io (con il supporto di ben altre menti, beninteso) cercherò di rispondervi, cosa che auspico, visto che ogni volta che mi chiedete qualcosa sono costretta a imparare anch’io :-)