Una delle cose più affascinanti in assoluto che riguardano il cibo per me è sicuramente la storia dei vari alimenti attraverso i secoli; gli amici ai quali si sono accompagnati, quelli che non hanno mai conosciuto, la loro evoluzione e i relativi cambi di sapori e profumi, gli incroci ai quali sono stati sottoposti e come il risultato è stato adattato nell’alimentazione di ogni giorno.

Che ne so, per me è stato straniante sapere che la melanzana e la cioccolata sono stati sposati molti anni fa, e che al matrimonio c’era anche il sale. E mi dà un bellissimo senso di calore sapere che ogni unione, per quanto azzardata sia stata, se ha funzionato in passato continuerà a funzionare per sempre, ed è quindi possibile ripescarla e reinterpretarla, cambiando anche solo un piccolissimo particolare, che però muta completamente il senso, il sapore e spesso anche la funzione che quel cibo svolgerà nel nostro organismo, che oltretutto varia da persona a persona.

Voglio dire, un cibo acido o amaro a me sarà utile, ad un altro potrebbe essere nocivo, e anche se circoscriviamo il discorso ad una singola persona è possibile che le cose cambino completamente se quest’ultima è in una diversa fase della vita, è più o meno stressata, o magari ha qualche disturbo momentaneo che cambia la composizione della sua flora batterica intestinale.

E trovo anche terribilmente affascinante che se riuscissimo a bypassare la nostra razionalità e le cattive abitudini che abbiamo acquisito con il tempo (come la storia del famigerato picco glicemico di cui vi raccontavo due post fa) avremmo in mano la chiave dorata della porta della nostra salute, perché sapremmo seguire le nostre appetenze: scegliere – senza mai sbagliare – ciò che ci far star bene e scartare ciò che ci è nocivo.

Come la storia della pasta, ricordate? Ne parlammo nel lontano aprile del 2009. Vi raccontavo che leggendo il librone di bioterapia nutrizionale avevo scoperto che la pasta corta essendo lavorata meno, ad esempio, degli spaghetti, è meno elastica, assorbe meno acqua durante la cottura e per questo rilascia gli zuccheri (e l’energia, sotto forma di idrati di carbonio) molto più velocemente.
Per questo motivo le persone che hanno bisogno di digerire velocemente scelgono inconsciamente la pasta lavorata poco (tipo le penne o i rigatoni), quelle che invece sanno che devono sostenere uno sforzo (fisico o mentale) dopo mangiato scelgono pasta più elaborata (tipo, che ne so, le farfalle o i fusilli); quelli che invece prevedono uno sforzo nel tardo pomeriggio scelgono gli spaghetti.
Non so se la cosa corrisponda esattamente alla realtà, ma per me è già molto interessante la considerazione che sta alla base di tutto questo, e cioè che noi sappiamo cosa ci fa bene e cosa ci fa male, dobbiamo solo imparare a riconoscerlo. E che se insegnassimo ai nostri bimbi a riconoscerlo da piccoli probabilmente gli faremmo un bel regalo che li renderebbe più forti e sani da adulti.

In questo caso ho preso una ricetta della tradizione napoletana (e dove, se non da Luciano Pignataro?), l’ho rifatta esattamente uguale, *epperò* (c’è sempre un “epperò”) l’ho fatta stufare meno tempo, ci ho aggiunto degli scalogni marinati nell’aceto di mele (non so perché ma l’aceto mi piace molto nei cavoli); ha acquisito una sua personalità precisa… magari non si sposeranno, la verza e l’aceto, però una storia di qualche mese ci sta, ci sta :-)
Ho usato una verza di Giampietro aka Agribios (lo trovate al mercato di Ponte Milvio, tranne, se non sbaglio, il lunedì e il giovedì, ma potete chiamare al numero che c’è sul sito per essere sicure), qualche fetta di gambuccio (la parte finale del prosciutto, verso il gambetto: costa molto meno del centro e spesso è più dolce) e l’aceto biodinamico della Voelkel. Piatto povero, veloce, riscaldante e ottimo.

Ingredienti:
una verza consapevole
una fetta di prosciutto crudo di parma alta mezzo centimetro
uno spicchio d’aglio
olio extravergine d’oliva
parmigiano reggiano
sale marino integrale
pepe in grani

per la versione basìta:
4 scalogni
sale marino integrale
qualche cucchiaio di aceto di mele

Non dovete fare altro che mettere a scaldare uno spicchio d’aglio schiacciato in una casseruola con il fondo coperto di olio, mondare, lavare e affettare la vostra verza, e quando l’aglio è appena dorato metterla in pentola insieme al prosciutto tagliato a dadini, mescolando un pochino per far rosolare bene il tutto (a fuoco medio); dopo di che sfumare con mezzo bicchiere di vino e aggiungere un altro mezzo bicchiere d’acqua (bollente); coprire e lasciar cuocere una ventina di minuti (o anche molto di più, a seconda di come vi piace la verza – a me piace cotta poco).
Quando sarete soddisfatte della cottura salate, impiattate (dovrebbe esserci un pochino di brodo), aggiungete un cucchiaio di parmigiano e una generosa spolverata di pepe e servite.
Se vi piace il gusto un po’ acido (io lo adoro con la famiglia dei cavoli) aggiungete degli scalogni marinati (ricetta del mitico Jamie): affettateli sottilissimi (Jamie dice che gli scalogni tagliati grossi sono “dozzinali, cafoni, orribili!”), metteteli in una ciotolina con una presa di sale e versate aceto (io di mele) fino a coprirli. Mescolate e lasciateli riposare almeno dieci minuti (ma vi assicuro che una notte in frigo li fa diventare strepitosi); poi strizzateli *bene* con le mani (perderanno tutto il sapore cipolloso) e scolateli. Ci stanno una meraviglia con la verza, e provateli anche con il cavolo cappuccio.